La Campania, il voto e un passato che non passa.

Forse per la prima volta da quando sono diventato titolare dell’elettorato attivo (cioè dal 1987), giungo a poche ore dal voto senza avere la benché minima idea di cosa farò nella cabina elettorale.

Nessun cedimento alla tentazione dell’astensionismo né adesione alla cultura dell’indignazione che vede nella classe politica tutto il marcio possibile e nella cosiddetta società civile la soluzione a tutti i mali.

Da molto più di un mese assistiamo ala consueta recita dei candidati che si propongono manifestando ottime intenzioni ed individuando soluzioni tutto sommato credibili. Da dove deriva, allora, la mia incertezza?

Nessuna incertezza, piuttosto una certezza: quella di un reciproco gioco al massacro fatto di accuse di trasformismo, opportunismo e incapacità variamente motivate. Insomma: è la classe politica stessa ad accreditare l’immagine di un’inaffidabilità radicale e di una sensazione di inadeguatezza generale che favorisce l’idea di una società civile un passo più avanti, sia sotto il profilo etico che delle capacità di governo. Ma è davvero così?

Forse che le crisi industriali che hanno attraversato il Paese e che non risparmiano la nostra regione e la nostra provincia siano tutte dipese dall’incapacità di governi centrali e amministratori locali? Quale è stato il ruolo in questi anni di ceto imprenditoriale, forze sociali e ambienti culturali del Mezzogiorno, della Campania e dell’Irpinia? Professori universitari che accettano il ruolo di assessori regionali senza alcun mandato elettorale al pari di nipoti dal cognome altisonante, ambientalisti che si sono prestati al giochino degli spot tesi a cancellare l’immagine della terra dei fuochi sostituendola con quella della mozzarella genuina, imprenditori che si candidano con il sostegno di quegli stessi politici che hanno contestato per non aver affrontato seriamente la questione del ritardo di sviluppo del Mezzogiorno, sindacalisti al servizio sia di politici che di industriali pur di guadagnarsi un posticino nei sottoscala dell’affarismo.

Il Mezzogiorno, appunto. Com’era, com’è. Ai Re sono succeduti i governi illuministi, a questi Destra e Sinistra storiche, e poi il fascismo e poi la Democrazia Cristiana (poco democratica e quasi per niente cristiana, almeno nella nostra regione) e infine destra e sinistra antistoriche del tramonto del XX scolo e dell’alba del XXI che sono riuscite nell’impresa impossibile di banchettare laddove non c’era più nulla da mettere in tavola.

E gli altri? Dov’erano gli altri? Cosa facevano gli “uomini del fare” e le coscienze civiche che oggi si riscoprono solidali con i Carmine Crocco e i Ninco Nanco o addirittura rimpiangono la dinastia borbonica? Ecco: i politici hanno compreso perfettamente che il modello vero per questa regione sono i Borbone, i briganti e i camorristi. Finiti i tempi di “Franza o Spagna purché si magna” e del passaggio disinvolto dall’ossequio ai nazisti all’elemosina delle cioccolate americane, dalla pasta e dalle scarpe di Achille Lauro alle clientele dei Gava, dei Pomicino, dei De Mita, dei Mastella, dei Mancino e dei Cosentino, cosa rimane?

La certezza di una continuità, quella sì storica, dell’assistenzialismo offerto dai politici e cercato dai cittadini-sudditi, in primis i cosiddetti imprenditori.

“Si comportavano in sostanza come gli appaltatori d’epoca preindustriale, che eseguivano lavori per conto dello stato piuttosto che operare sul mercato”: sembra la descrizione della classe imprenditoriale dei nostri tempi, sempre pronta a recitare la litania della richiesta di grande opere finanziate dallo Stato (o dai mitici fondi europei) con conseguente pioggia di soldi che va a finire (poco) nelle tasche dei suddetti “imprenditori” (o degli stessi politici) e (molto) in quelle della camorra.

No, la descrizione non è quella degli imprenditori di oggi, ma di quelli che operavano a Napoli più di centocinquant’anni fa: si tratta di coloro che John Davis, professore di Storia Italiana all’Università del Connecticut, definisce “imprenditori dell’arretratezza” nel suo “Società e imprenditori nel regno borbonico 1815-1860” (Laterza, 1979).

E i politici? Vuoi mettere i politici di oggi (furbi, inaffidabili e forse anche mariuoli) con la dinastia illuminata e concreta dei Borbone? Vuoi mettere questi politici che sprecano i soldi dello Stato per costruire strade che portano alle loro splendide ville con chi, addirittura nel lontanissimo 1839, inaugurava la ferrovia Napoli-Portici? Una ferrovia, cioè il treno: immagine che associamo a lavoratori e studenti pendolari o a turisti che vanno ad alimentare economie locali. Ma fu costruita a questi scopi la Napoli-Portici? Fu costruita, cioè, per i cittadini (pardon, sudditi)? No, tutt’altro: nel 1738, cioè un secolo prima, un altro sovrano borbonico illuminatissimo, Carlo III, aveva avuto la non illuminatissima idea (per gli stessi Borbone suoi eredi) di far costruire la residenza estiva della casa reale proprio a Portici. E allora qual è la differenza tra i politici di oggi che si sono costruiti le strade per arrivare prima alle loro case e chi costruì una ferrovia con i dazi pagati da un ceto popolare ridotto alla fame per andare a villeggiare a Portici?

E quale, invece, quella tra gli imprenditori dell’arretratezza descritti da Davis e quelli che oggi reclamano investimenti statali, aiuti dello Stato e incentivi statali? E con i loro soldi che fanno? Mantengono mignotte, foraggiano sindacalisti appecoronati e comprano fuoriserie ai figli?

E il popolo, cosa fa, il popolo? Si divide tra la nostalgia per i briganti e quella per i Borbone magari invocando oggi la burocrazia spagnola e domani la ghigliottina francese sperando nell’ordine nazista o nelle cioccolate americane?

No, non so davvero cosa farò, nella cabina elettorale, di qui a due giorni.

La camorra, la politica e i misteri irrisolti: pensieri sparsi a pochi giorni dal voto.

L’intervista rilasciata al Mattino dall’ex giudice Alemi sulla cattura del superlatitante Pasquale Scotti (uno degli uomini più vicini al capo della Nco Raffaele Cutolo) è una straordinaria testimonianza di un protagonista delle indagini su uno dei casi (il rapimento dell’assessore regionale Ciro Cirillo da parte delle Brigate Rosse) più inquietanti della storia repubblicana del nostro Paese.

Il giudice Alemi va oltre, parlando apertamente di collusioni tra apparati dello Stato (sia esponenti politici e istituzionali che servizi segreti), criminalità organizzata, P2 e massoneria (attenzione a tenere distinte queste ultime: troppo spesso – in presenza di coinvolgimenti della massoneria in casi di corruzione politica o di contiguità con organizzazioni criminali e terrorismo stragista – si utilizza la riduttiva espressione “logge deviate”).

Leggendo l’intervista ho fatto due considerazioni: la prima legata all’attualità di questi giorni, la seconda che affonda le sue radici in uno dei passaggi epocali della storia recente del nostro Paese.

La riflessione di attualità porta dritto ai meccanismi di potere che dal caso-Cirillo in poi si sono radicati nella nostra Regione: una riflessione in tal senso mi farebbe piacere ascoltarla dai candidati alle elezioni regionali, qualcuno dei quali andrà a Napoli a rappresentare un’istituzione che di quelle contiguità, di quei silenzi, di quelle ombre mai diradate è ancora ostaggio.

La riflessione più “storica” attiene ai romanzi che ho scritto, i quali sono legati fra di loro proprio da un’inquietudine su quanto avvenuto tra il 1978 e il 1981 tanto in Italia quanto in Campania: sono anni, dopo l’assassinio di Aldo Moro, nei quali cambiano gli assetti di potere e anche le “direttrici morali” su cui si era fondata l’Italia antifascista, repubblicana e costituzionale del dopoguerra; uomini senza scrupoli prendono il posto di statisti guidati dalla stella polare dell’intransigenza etica e della “questione morale”, un progetto di superamento di un blocco politico dettato da potenze straniere viene soffocato nella culla attraverso una strage di uomini dello Stato in divisa e un assassinio dai contorni ancora oscuri; troppi soldi, quasi sempre sporchi, ruotano intorno ad operazioni che porteranno una nuova classe dirigente – cinica e corrotta – ai vertici di partiti e di istituzioni: non a caso Alemi lega la figura di Pasquale Scotti anche all’assassinio del banchiere Roberto Calvi, altro mistero irrisolto e inquietante. Scrivi Calvi e leggi Sindona, omicidio Ambrosoli, mafia, Ior, monsignor Marcinkus, due attentati ad altrettanti pontefici, banda della Magliana, e ancora malapolitica e ancora camorra e ancora servizi segreti e ancora P2 e ancora massoneria.

Tornando al voto che ci attende di qui a qualche giorno, ci penserei cento volte prima di ammazzare vitelli grassi per festeggiare il ritorno di figliuoli (o nonni che ora pensano a figli e nipoti?) fin troppo prodighi (con i loro clienti e compari).

E tornando a quel poco (o nulla) che un romanzo può valere, riporto qui un passaggio di “Le divergenze perpendicolari”: «Prima quell’illuso del petrolio di cui ti sei brillantemente occupato diciotto anni fa, poi quell’altro esaltato delle convergenze parallele che abbiamo fermato con un’operazione così geniale che dovrebbe essere riportata da tutti i libri di storia, se non fosse stata realizzata con la complicità di ministri democristiani e intoccabili di sinistra, terroristi e controspionaggio americano, armi sovietiche e coperture massoniche. Ma è un lavoro che va completato (…) è venuto il tempo di ricambiare i favori ricevuti ai nostri amici delle famiglie napoletane che ci hanno aiutato a tirare su il nostro piccolo esercito anche a Roma. Il terremoto è un’occasione unica; ma dovranno sporcarsi le mani tutti quelli che hanno tratto benefici dalla criminale esecuzione del Presidente Moro da parte delle Brigate Rosse».