36 anni dopo il Sud sprofonda ancora

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Sono tante le prime pagine dei giornali, e i titoli, che rendono l’immagine del dolore e della disperazione dei giorni immediatamente successivi al terremoto del 23 novembre 1980, a partire dall’emblematico “Fate presto” del Mattino.

Ma “Il Sud sprofonda” di Repubblica è un titolo profetico, più che il racconto di città e paesi in ginocchio, di vite spezzate, di macerie, di una nuova emigrazione che iniziava già in quelle ore.

Il Sud sprofonda: da sempre figlio di una nazione minore, il Sud devastato dal sisma era già pronto per essere stuprato dagli affaristi, venduto dai politici, comprato ancor di più dalle mafie.

La camorra, ad esempio, scoprì che in Campania le montagne fatte di fatica, sudore e miseria di una terra sconosciuta e disprezzata stavano per diventare una miniera: l’emergenza, la ricostruzione, la normalizzazione. Soldi. Una valanga di soldi.

Che continuano ad arrivare.

Il Sud sprofonda. L’Irpinia cominciava a sprofondare.

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Un paese distrutto e una donna che lo attraversa e che non ha il coraggio di guardarlo. Non lo guarda per il dolore di un presente sottratto, per la consapevolezza di un mondo ormai finito.

Anche l’Irpinia, per anni, è stata una donna che non ha voluto guardare – s’è rifiutata di guardare – la devastazione che la circondava.

Ma non per dolore, non per consapevolezza. Per convenienza.

I miliardi erano il miraggio di un’epoca di lussi capaci di riscattare dalla povertà di secoli: i lussi di pochi che avrebbero dovuto riscattare la miseria di tanti, di troppi. Si rovesciava no così i valori di una terra che solo sui valori antichi – quando c’erano – poteva contare: i lussi come vanto di successo e ostentazione, la povertà come vergogna e marchio della sconfitta.  Il Sud, l’Irpinia, stavano sprofondando con consapevolezza e senza dolore. Già dai primi giorni.

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C’erano i morti accatastati o messi in fila lungo il ciglio delle strade, nei paesi e nelle città più colpiti. Ma mentre forze dell’ordine, militari, volontari e sopravvissuti sistemavano quella processione inerte e inerme, altre processioni si organizzavano: file di vivi affamati, richiamati e incattiviti dall’odore del gratis e del facile, prendevano d’assalto – nel silenzio e nella compiacenza se non nella complicità di chi aveva il dovere di vigilare e custodire – i centri di raccolta di beni destinati a coloro che avevano perso tutto: alimenti, vestiario, tende,finanche gli attrezzi per scavare tra le macerie. Mentre si temeva, si preveniva e si sventava lo sciacallaggio tra le rovine, si consumava, come prima forma di clientelismo per una futura base elettorale, quello di chi, senza lacrime. vedeva il terremoto come un’opportunità da non perdere.

Il self service delle bestie.

Il Sud sprofonda. Nella vergogna.

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C’era chi quei vuoti – di vita, di case, di socialità – proprio non ce la faceva  a guardarli. E c’era chi, lungimirante nella propria immoralità, non riusciva proprio a toglierseli dagli occhi, immaginando e già pregustando il cemento che li avrebbe riempiti, l’asfalto che li avrebbe collegati, le fontane, i marciapiedi, i lampioni, le aiuole e le megaopere che li avrebbero abbelliti per cancellare i ricordi tristi. Questo dovevano diventare quei morti sul ciglio delle strade, quelle strade cancellate, quei quartieri sventrati, quell’aria di morte e di disperazione: ricordi tristi.

Il Sud sprofonda. Sprofondava nel dolore e nella cupidigia. Il dolore sarebbe passato, la cupidigia no. Ma c’erano occhi che osservavano e non avrebbero mai dimenticato.

Gli occhi dei bambini

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Avrebbero dovuto attendere 36 lunghi anni per essere ancora feriti, gli occhi dei bambini.

Certo, altri bambini, ma come i loro coetanei di 36 anni fa esposti al pericolo di un presente di paura e di un futuro di incertezze a vantaggio degli affari e degli affaristi. Bambini ai quali vengono negate scuole sicure, con l’alibi agghiacciante che non è solo la “loro” scuola a non essere sicura, perchè nessuna scuola o altro edificio pubblico o privato possono ritenersi sicuri. Gli stesso bambini o ragazzi o giovani per i quali vengono costruite o asfaltate nuove strade. Sempre quelle dell’emigrazione.

Oggi come ieri i professionisti dell’affare, gli assaltatori di beni altrui, i collusi e i corrotti ci spiegano che non c’è da temere e preparano un futuro fatto di altro cemento e di nuove cattedrali nel deserto. Questa volta l’obiettivo non è dimenticare i morti, il dolore, la disperazione di quei giorni. L’obiettivo è far dimenticare cosa è accaduto dopo quei giorni fatti di morte, di macerie, di nuovi emigranti e di antica disperazione. L’obiettivo di oggi è far dimenticare i soldi.

I soldi degli affari che hanno arricchito pochi e impoverito tutti gli altri.

I soldi delle ruberie. I soldi delle corruzioni. I soldi delle collusioni. I soldi del voto di scambio. I soldi della camorra, dalla camorra e per la camorra.

I soldi: spendere 65mila miliardi e avere, 36 anni dopo, scuole non sicure che con un altro terremoto si porterebbero via, cancellandole, le vite di bambini, ragazzi e giovani.

Cancellando il futuro e completando un’opera di distruzione che al terremoto del 23 novembre 1980 non è riuscita: 6.9 di magnitudo, pari a poco meno di 32 milioni di tonnellate di TNT. Tritolo. 65mila miliardi di lire (e il resto che è venuto dopo e che si aspetta ancora) più devastanti di 32 milioni di tonnellate di tritolo.

Il Sud sprofonda. Il Sud è sprofondato.

E noi continuiamo a pensare ai soldi.