Fine delle trasmissioni

Fine delle trasmissioni

L’inizio è la fine. La fine è l’inizio.

(da “Dark”, serie Netflix)

Il 22 ottobre 2020 il Consiglio dei ministri, su proposta del ministro dell’Interno Luciana Lamorgese decideva lo scioglimento del Consiglio comunale di Pratola Serra per infiltrazioni e condizionamenti dell’attività amministrativa da parte della criminalità organizzata. Decisione poi confermata, il 26 ottobre, con un decreto del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. In questi sei mesi ho dedicato 20 video – condivisi su youtube, Facebook e Instagram – allo scioglimento del Consiglio comunale di Pratola Serra: il fillo conduttore del mio racconto è stato la relazione firmata dal Prefetto di Avellino Paola Spena quale sintesi delle conclusioni della commissione d’accesso antimafia, che ha monitorato per sei mesi gli atti amministrativi degli ultimi 10-12 anni. Altri due video riguardano le clamorose perquisizioni effettuate dai Carabinieri nelle abitazioni di diversi amministratori, i quali lo stesso giorno dell’operazione tennero una conferenza stampa per negare ogni addebito nei loro confronti.

La storia che ha portato sulle pagine dei giornali locali e alla ribalta della cronaca nazionale il comune di Pratola Serra, il paese nel quale sono cresciuto e nel quale decisi di tornare per costruire una famiglia e dare stabilità alla mia vita, è ovviamente una storia fatta di verità e di menzogne, una storia nella quale non è sempre semplice distinguere le une dalle altre. Ovviamente non ho la pretesa di stabilire cosa è menzogna e cosa è verità: ho solo provato a dare, insieme a personalissime riflessioni, informazioni a chi è interessato a capire cosa è davvero successo a Pratola negli ultimi anni.

I video di cui parlo sono qui:

https://www.youtube.com/channel/UC9BG4MULKu3fEnrWnK8Yd1Q/videos

Il mio viaggio, a un certo punto, ha trovato agganci con i libri che stavo leggendo (tre romanzi): gli ultimi tre che ho letto e recensito su uno dei miei profili Facebook e sul mio blog; si tratta di “Fahrenheit 451” di Ray Bradbury, “Il bordo vertiginoso delle cose” di Gianrico Carofiglio e “Giuda” di Amos Oz.

Già di per sé i libri hanno il potere di farci riflettere sul presente e su ciò che accade intorno a noi: se poi si intrecciano alla perfezione dando anche risposte rispetto alle vicende su cui sei impegnato, essi riescono perfino a indicare una strada.

Così è stato per me con questi tre libri. Provo a spiegare perché, e soprattutto a quale conclusione mi hanno portato.

Nascondere la verità in un involucro, qualcosa che somigli a una bugia. Anzi: rendere evidente la verità dicendo una bugia. Insomma, la verità nascosta in una menzogna. Oppure l’esatto contrario: presentare come “verità amministrative” (solo perché sigillate come tali da atti approvati in forza di una maggioranza) menzogne e comportamenti a dir poco discutibili, il più delle volte consumati nel territorio grigio e comunque oscuro del confine tra la legittimità politica e amministrativa e l’illegalità.

Per tredici anni le diverse Amministrazioni che hanno governato Pratola Serra hanno scelto la seconda strada: matrioske continue di verità amministrative alternate a menzogne spudorate e immorali: matrioske nelle quali le verità nascondevano spesso le menzogne e le menzogne erano l’unica verità evidente.

***

Una storia di menzogne e di verità è anche quella raccontata da Ray Bradbury in Fahrenheit 451: la menzogna di una realtà immaginata, distopica ed eccessiva. Pompieri che appiccano incendi invece di spegnerli. Una falsità spudorata. Una menzogna che nasconde una grande verità: il fuoco ha sempre a che fare con un pericolo: un pericolo dal quale difendersi con l’acqua, un pericolo dal quale difendersi con il fuoco; il fuoco che allontana le bestie, il fuoco che scaccia il freddo, il fuoco che brucia i libri. Che brucia la conoscenza, e con essa la verità.

Ma cosa c’entra tutto questo con la storia che in sei mesi ho provato a raccontare con video e post pubblicati sui social? La storia delle ragioni che hanno portato allo scioglimento del consiglio comunale di Pratola Sera per infiltrazioni della criminalità organizzata. Camorra, in questo caso.

C’entra, perché la storia dello scioglimento è fatta di verità nascoste sotto un cumulo impressionante di bugie e di bugie accettate come verità per superficialità, indifferenza, ingenuità o convenienza. Non le ripercorrerò, ovviamente. Non mi interessa. Non più.

Il filo conduttore della mia narrazione è stato il testo della relazione del Prefetto di Avellino (preceduta dall’introduzione tutt’altro che formale del Ministro dell’Interno): relazione che è una sintesi del lavoro svolto dalla Commissione di accesso antimafia che per ben sei mesi ha indagato in municipio – e non solo – sull’attività dell’Amministrazione comunale e sui comportamenti degli amministratori.

Ho fatto considerazioni – se e quando le ho fatte – esclusivamente sulla base di queste conclusioni di ministro e prefetto. Nulla di più, o poco più, dei semplici fatti per come sono stati riportati e descritti nella relazione.

Non mi interessa avere ragione, non è mio compito dividere le verità dalle menzogne, classificare come tali le une e le altre. Saranno altri a farlo, naturalmente.

Ho maturato la decisione di concludere la mia narrazione proprio mentre leggevo il romanzo di Bradbury. Più mi addentravo nella storia, mi più questa mi affascinava e coinvolgeva, tanto più quando incrociavo passaggi perfettamente sovrapponibili alla situazione che stavamo vivendo a Pratola: una situazione sconcertante per un verso, paradossale per un altro; sconcertante, perché cos’altro puoi provare, se non sconcerto, quando scopri di vivere in una comunità amministrata da personaggi che si sono fatti condizionare, nelle loro scelte, da camorristi? Paradossale perché, giorno dopo giorno, ti accorgi che è come se nulla fosse davvero accaduto: si attendono arresti, processi, addirittura sentenze. Come se questi potessero arrivare nel lasso di qualche settimana, o di giorni; come se i fatti messi in fila nella relazione fossero dettagli, al più rumori di fondo. Si dirà che forse non sono mai accaduti, che sono da provare o che per essere rilevanti debbano avere il sigillo di una sentenza, meglio ancora se definitiva. In altri termini, per farci un’opinione su evidenti forzature amministrative, su un uso disinvolto del denaro pubblico, su un esercizio spregiudicato del potere, su condotte più che discutibili caratterizzate da avventurismi e salti nel vuoto, sull’inevitabile nocumento causato a un’intera comunità per aver cercato o ottenuto sostegno elettorale da ambienti e personaggi ben noti, dovesse esserci bisogno di manette, avvisi di garanzia, rinvii a giudizio, processi, condanne. Come se non bastasse ciò che è scritto nella relazione, come se non bastasse quello che già sappiamo, come se non bastasse ciò che abbiamo sempre saputo. E che da sei mesi ha la conferma di soggetti e organi istituzionali come una commissione d’accesso antimafia formata da ufficiali dei carabinieri e funzionari del ministero degli Interni, come il Prefetto di Avellino. Come il Ministro dell’Interno, come il Consiglio dei ministri, come il Presidente della Repubblica. Ma no, tutto questo a Pratola non basta, cosa mai può contare una tale trafila di certificazioni di fronte alla parola di un omissis qualunque pronunciata su un marciapiede o davanti a un bar? Un atteggiamento collettivo che se mai certifica ulteriormente il condizionamento mafioso non solo di un’amministrazione comunale ma di un’intera comunità.

Insomma vale di più il nuovo cumulo di menzogne del buonsenso di cittadini assistiti dalla diligenza del buon padre di famiglia. Serve la verità di una sentenza definitiva per disseppellire le tante menzogne nascoste dagli involucri delle verità degli atti amministrativamente in regola, dei permessi e dei nulla osta? O forse tutto è lecito quando avviene nella legittimazione del consenso elettorale? Vincere le elezioni dà il diritto di decidere per un’intera comunità, non di andare oltre o contro la legge. Per molti, forse si può. Ma non è questo il punto. Non è più tempo di ragionamenti razionali – se mai ce n’è stato uno comunemente accettato, nel senso di confronto – né di analisi. È, invece, il tempo per cominciare un altro racconto. Un inizio che segna la fine del primo. Quel che ho capito – leggendo insieme, pubblicamente la relazione del Prefetto e privatamente “Fahrenheit 451”, “Il bordo vertiginoso delle cose” e “Giuda” – è che è inutile provare a convincere qualcuno che pur di non conoscere la verità preferisce cancellarla. Bruciandola.

Che sia essa la verità degli uni o degli altri.

Se ciascuno ha il diritto di avere una propria verità, la mia è quella scritta nei libri. Ed è a ai libri che voglio tornare. Non a scriverli, ma a leggerli.

Il mio è un racconto di considerazioni ispirate da alcuni passaggi dei tre libri o che nascono da altri passaggi: i primi sono mutuati – lo farò soltanto per l’incipit – i secondi riportati testualmente.

Quello che vedo intorno a me

Questo paese ha attraversato quasi tre lustri osservando opulenza ostentata e tentativi di nascondere arricchimenti piovuti da chissà dove di gente agiata della quale non s’è mai conosciuta l’attività lavorativa; i bisognosi che ricevevano aiuti, un minimo aiuto, erano il velo sotto il quale nascondere la sporcizia di certi affari e il fetore di soldi non impregnati di sudore.

Poi c’era l’involucro e c’era la sostanza, la verità celata dalla confezione lussuosa della menzogna; sì, i vostri volti hanno sempre detto tutto: non persone felici, ma gente feroce che indossava la contentezza come una maschera.

Vedendo riflessa la mia povera immagine nel vuoto delle espressioni di queste maschere, dall’alto del mio nulla respiro a pieni polmoni la libertà dell’essere estraneo a questo carnevale dell’inutile compiacimento, a questa fiera dell’esaltazione dell’effimero. Ne sono estraneo per scelta, vivaddio!

Cominciare un racconto per mettere il punto ad un altro, dunque. Ma come farlo? E perché farlo? Per chi, soprattutto?

Mi sono convinto del dovere di lasciare una testimonianza del periodo più buio della storia del paese nel quale ho scelto di vivere e di costruire la mia famiglia.

Chi sarà il reale destinatario (beneficiario?) di questa testimonianza non saprei dirlo. Ma forse proprio per questo è necessario lasciarla. Proprio per questo è necessario che la vera sostanza sia celata da un involucro di apparenza. L’apparenza delle parole. Le parole di tre romanzi (cioè finzioni, racconti di fantasia, in un certo senso bugie) sono l’involucro, i fatti che si sono consumati sotto gli occhi di tutti e nell’indifferenza quasi generale è la sostanza che va cercata e trovata. E potrà farlo solo chi sarà capace di non fermarsi alle apparenze, chi saprà andare oltre le menzogne mascherate da verità, le bugie spacciate per gesti caritatevoli, chi avrà tanto a cuore la verità da trovarla in un cumulo di parole che, apparentemente, parlano d’altro. Perché farlo?, è lecito chiedersi. Proverò a dirlo.

***

Da Fahrenheit 451: “Tutti dobbiamo lasciare qualcosa, quando moriamo. Lo diceva mio nonno. Un bambino, un libro, un quadro, una casa, un muro appena costruito o un paio di scarpe fatte con le nostre mani. Magari un orto in cui avevamo seminato. Qualcosa che le tue mani avevano toccato in un certo modo, sicché l’anima abbia un posto dove andare quando muori. E se la gente guarderà quell’albero o il fiore che hai piantato, tu sarai là. Non importa quello che fai, diceva il nonno, purché serva a cambiare qualche cosa, a renderla diversa da come era prima che la trasformassi in una cosa che somiglia a te. La differenza tra un uomo che si limita a tagliare l’erba e un vero giardiniere è nel tocco, mi diceva. Il tagliatore d’erba è anonimo, il giardiniere lascia un’impronta che dura tutta la vita”.

Se avessi chiesto a Ray Bradbury di scrivere qualcosa in riferimento a quanto accaduto nel mio paese e al mio istinto di ribellione e al mio senso di impotenza, non avrebbe potuto utilizzare parole più adatte. Non c’è quindi bisogno di aggiungere altro se non, ovviamente, che io non intendo cambiare alcunché: ho ritenuto di dare una testimonianza, soprattutto per affermare che non tutti i pratolani sono indifferenti, silenti, mossi da interesse, conniventi, collusi, comprati. Ma come farlo?

Evitando il fuoco, prima di tutto. Perché il fuoco è nemico della verità, quella scritta nei libri, sui giornali, oggi sui social. Ma tutto può essere verità, e tutto può essere menzogna. Come distinguere? Di solito chi è certo di affermare una verità non teme il confronto tra “verità” diverse, non sfugge al contraddittorio, non rinuncia a esporre pubblicamente le proprie ragioni, fa di tutto per confutare gli argomenti di chi muove una critica o addirittura un’accusa, tanto più se tale accusa è grave come quella di essere stati condizionati da clan camorristici. Chi rivendica con sicurezza di dire la verità, di tutto ha bisogno fuorché del silenzio. Rendere note le vicende, dunque: informare, dibattere. Chi non prova a farlo comincia a inoltrarsi nel buio delle menzogne e della reticenza perché la verità lo spaventa, lo accusa, lo mette spalle al muro. La verità, quella oggettiva, emerge al manifestarsi di tre condizioni, indicate da Bradbury nel suo romanzo.

Da Fahrenheit 451: “La qualità dell’informazione, il tempo per assorbirla, il diritto di compiere azioni basate su quello che impariamo dall’interazione fra le prime due”.

Personalmente non ho fatto altro che informare, prendendo in esame alcuni passaggi della relazione del prefetto; serviva tempo per farlo: tempo per far assorbire l’importanza di quei fatti, l’enormità degli effetti prodotti nella nostra comunità; le azioni conseguenti, basate sull’interazione tra informazione e comprensione dei fatti, non spettano a me. Dunque, mi fermo qui. O meglio: mi sono fermato un passo fa.

L’opinione è nemica della verità: la verità è oggettiva, l’opinione è un’interpretazione di fatti oggettivi. È legittimo che una comunità (o almeno la sua maggioranza) decida di dare un’interpretazione di quei fatti: la formazione di una maggioranza intorno a un’interpretazione è un fatto oggettivo, ma quell’interpretazione, per quanto maggioritaria, non cambia i fatti. Da una parte la verità dei fatti, quindi, dall’altra l’interpretazione – maggioritaria o minoritaria – di quei fatti. A nessuna delle due fazioni è dato di brandire quei fatti come verità, ma la verità di quei fatti resta.

Sono ancora i libri, questa volta due, ad aiutarci nella comprensione di quanto accade intorno a noi, nonostante il fatto che ciò che accade intorno a noi non ha nulla a che vedere, apparentemente, con le storie che raccontano.

Da Fahrenheit 451: “Anch’io dirò la mia e tu sentirai, potrai fare un paragone e decidere da che parte saltare o lasciarti cadere. Ma voglio che sia una decisione tua, non mia o del capitano. Ricorda che lui appartiene al peggior nemico della verità e della libertà, il gregge compatto e insensibile della maggioranza. Dio, la tremenda tirannia della maggioranza. Tutti abbiamo un’arpa da suonare, ma tu dovrai decidere con quale orecchio ascoltarla”.

La storia raccontata da Bradbury – per il lettore che vive in una società libera e democratica – pone il protagonista di fronte a una scelta “facile”: stare dalla parte di chi brucia i libri oppure unirsi a chi prova a difendere e a conservare la conoscenza. Al di là del fatto che anche oggi non sono pochi coloro che pensano di fermare idee e opinioni avverse bruciando i testi che le contengono, la difficoltà del protagonista di Fahrenheit 451 sta nel dare credito a una versione dei fatti o all’altra, aggregarsi alla maggioranza che crede ciecamente alla versione di chi detiene il potere oppure arrischiarsi nel territorio inesplorato indicato da un pugno di dissenzienti. Certo, un’altra facilitazione – per il lettore – offerta da Bradbury è quella di collocare le vicende narrate e i loro protagonisti in un contesto storico e politico caratterizzato da un regime dittatoriale e privato della libertà. Ma esiste davvero la libertà in un contesto condizionato e infiltrato da un potere criminale come la camorra? Se si può dire che è l’opinione dominante a determinare la “verità”, è altrettanto corretto affermare che una “verità” accettata per paura – Fahrenheit 451 è soprattutto una storia caratterizzata dal terrore – determina una maggioranza fondata su un’opinione che di fatto è manipolata. La differenza la fanno i mezzi in campo: le conoscenze, le risorse economiche, l’esercizio della forza, anche quella fisica. Poi, per chi è disarmato su questi terreni, esiste l’utopia. Cioè la forza delle idee, l’assillante bisogno di verità e di giustizia. Spesso, o almeno questo accade a me, i libri diventano il luogo nel quale cercare tutto questo.

Da Fahrenheit 451: “La maggior parte di noi non può correre dappertutto, parlare con chiunque, conoscere tutte le città del mondo, perché non ha il tempo, i soldi e neppure tanti amici. Le cose che cerca, Montag, sono nel mondo, ma il solo modo in cui l’uomo medio può conoscerle è leggendo un libro”.

Montag è il protagonista del romanzo, un pompiere che ha bruciato i libri e le case nelle quali venivano conservati i pochi ancora esistenti, che a un certo punto comincia a porsi domande e a riflettere. Chi gli parla è un anziano ex professore che prova a preservare il patrimonio letterario con la forza della memoria. Ma allo stesso tempo è consapevole della disparità delle forze in campo.

Da Fahrenheit 451: “Non credo che un vecchio come me e un pompiere amareggiato possano fare molto, a questo punto del gioco”.

La mia condizione non è ovviamente quella del pompiere amareggiato, ma più leggevo più trovavo conferma della bontà della mia risoluzione di cercare le risposte nei libri. Umberto Eco era solito affermare che i libri si parlano fra di loro, io sperimento come essi parlino a noi quasi mettendosi d’accordo fra di loro, facendo a gara a farci comprendere le cose, aiutandosi l’un l’altro affinché questo avvenga. Capita così che pensi di afferrare il senso del passaggio di un libro che onestamente non ti è poi davvero chiarissimo. Lo leggi, pensi di averne colto quantomeno il significato di massima e vai oltre. Così è capitato a me leggendo un brano – che ora sono certo essere fondamentale – di Fahrenheit 451.

Da Fahrenheit 451: “Forse i libri possono aiutarci a mettere la testa fuori dalla caverna. A impedirci di fare gli stessi maledetti errori”.

Mettere la testa fuori dalla caverna: alla fine ti convinci che si tratta di una metafora – come a dire uscire allo scoperto, avere il coraggio di esporsi – e ti accontenti, anzi sei felice, di aver recepito ciò che è più importante in quel passaggio: i libri ci aiutano a non commettere gli stessi errori. Per non commettere gli stessi errori bisogna prendere pubblicamente una posizione. Hai capito, insomma.

Invece no. Hai capito poco, o forse non hai capito nulla.

Lo scopro appena qualche giorno dopo aver finito il romanzo di Bradbury e iniziato uno di Gianrico Carofiglio, “Il bordo vertiginoso delle cose”: una storia che apparentemente non ha nulla a che fare con quella raccontata da Bradbury. Forse è così, ma per me c’è un filo rosso che mi consente di capire quel che mi è sfuggito leggendo quel brano di Fahrenheit 451 riguardante la caverna: una metafora che ha a che fare con qualcosa che non ho studiato, la filosofia. Ammesso che io abbia mai studiato ‘davvero’ qualcosa in modo serio. Nello specifico, la caverna è una metafora di Platone, che descrive un luogo, la caverna appunto, nella quale da sempre sono tenuti incatenati uomini che conoscono solo ombre e suoni indistinti.

Da Il bordo vertiginoso delle cose: “Nel mito platonico gli oggetti fuori dalla caverna sono le idee, che l’uomo riesce a percepire e a conoscere solo quando si libera dalle catene della doxa – l’opinione – che per Platone rappresenta la forma più primordiale e ingannevole di conoscenza. Proprio come quella degli incatenati che possono vedere solo le ombre e sentire solo gli echi”.

Se Bradbury e Carofiglio avessero voluto mettersi d’accordo, a sessant’anni di distanza l’uno dall’altro, per consentirmi di descrivere al di là delle mie possibilità la mia ricerca di verità e giustizia condotta negli ultimi mesi, di meglio non avrebbero potuto fare. Ora è davvero tutto chiaro. Ma tutto ben lontano dall’essere risolto, ovviamente. Perché i libri offrono una verità valida solo per il lettore, non una verità universalmente riconosciuta. Fahrenheit 451 mette in fila le vicende “pratolane” in due passaggi essenziali.

Da Fahrenheit 451: “Un pugno di matti con la testa piena di versi non possono preoccuparli, lo sanno loro e lo sappiamo noi. Finché il popolo non si mette ad andare in giro citando la Magna Charta e la Costituzione, va tutto bene”.

Per questo ho potuto scrivere e parlare tranquillamente, per mesi. Perché ho fatto “poesia”. Perché non ero “il popolo”, ma solo un matto. Le due condizioni affinché i poteri oscuri e palesi reagiscano sono queste: che sia “il popolo” a muoversi e che esso parli affermando diritti e Diritto. Cose scritte, cogenti, valide e riconosciute. Non un’opinione, non le menzogne di un omissis qualunque. Questo cambia le cose, per davvero: un popolo consapevole dei propri diritti che esige, da tutti, il rigoroso rispetto delle leggi.

La consapevolezza e l’informazione: due elementi essenziali, più di tutto l’informazione. Il “popolo” deve avere la consapevolezza che, avendo tutte le informazioni a disposizione, può sconfiggere ogni nemico dei fatti, ogni forma di tirannia, ogni camorra e ogni politica corrotta.

Da Fahrenheit 451: “Conosce la leggenda di Ercole e Anteo, il gigante che aveva una forza inesauribile finché posava i piedi a terra? Se la leggenda non rispecchia la nostra situazione qui, oggi, in questa città, allora io sono pazzo. Bene, ecco la prima cosa di cui abbiamo bisogno: qualità e spessore nell’informazione”.

Anteo, nella mitologia greca, era un gigante, figlio di Poseidone. Egli, ricevendo forza dal contatto con sua madre, la Terra, vinceva facilmente tutti quelli che incontrava e con i crani delle sue vittime decorava il tempio paterno. Fu vinto da Ercole, che lo tenne sospeso dal suolo e lo strozzò. Quando Ercole riuscì a sollevarlo a mezz’aria, il gigante morì senza troppi sforzi da parte dell’eroe.

Nessun avversario è invincibile, come dimostra il modo con il quale Ercole sconfisse Anteo; lo sconfisse perché conosceva il suo segreto, il suo punto debole. Aveva cioè l’informazione giusta e la giusta determinazione. I due elementi che oggi servono alla nostra comunità per uscire dalle tenebre in cui ci ha trascinato chi ha amministrato il paese negli ultimi 14 anni. Ma nulla è scontato. Nemmeno quando ci sono le intenzioni migliori e si è certi di sapere chi è nel giusto e chi sono i colpevoli.

Da Fahrenheit 451: “Non potevano sapere con certezza che le cose che avevano in testa avrebbero illuminato un’alba più pura; sapevano soltanto che dietro i loro occhi tranquilli i libri erano conservati in ordine, e che aspettavano, con le pagine non ancora tagliate, i clienti che sarebbero venuti in futuro, alcuni con le mani pulite e altri sporche”.

Ciò che verrà dopo è sempre un’incognita. Si può sbagliare, ma bisogna agire, e non è detto che abbattuto un tiranno non contribuiamo a elevarne un altro. Qui da noi è già capitato.

Da Fahrenheit 451: “Affideremo tutto alla stampa fino al prossimo Medioevo, quando dovremo rifare ogni cosa daccapo. Ma questa è la meravigliosa qualità dell’uomo: non si scoraggia né si disgusta abbastanza da rinunciare a tentare di nuovo, perché sa molto bene che è importante e ne vale la pena”.

In questi sei lunghi mesi mi sono chiesto se sono io ad essere pazzo a combattere da oltre tre decenni contro tutto ciò che ai miei occhi appare come un’ingiustizia o se sono semplicemente inadeguato a spiegare, ad argomentare, a dimostrare.

In una parola: a convincere. Ancora una volta è stato il libro che stavo leggendo a farmi capire.

Da Fahrenheit 451: “Non si può costringere la gente ad ascoltare: devono arrivarci da soli, quando è il momento, e allora domandarsi cosa è successo e perché il mondo è scoppiato sotto i loro piedi. Perché così non può durare”.

Tornando ora al mito platonico della caverna, ci appare più chiaro il fatto che l’uomo riesce a percepire e a conoscere solo quando si libera dalle catene dell’opinione. Fosse anche l’opinione dominante.

L’informazione e la consapevolezza di una minoranza può vincere contro l’opinione della maggioranza? Dipende dalla qualità della minoranza, intesa come capacità di diffusione dell’informazione ed efficacia della riflessione su di essa.

Da Fahrenheit 451: “Non chieda garanzie e non si aspetti di essere salvato grazie a una sola persona, macchina o biblioteca”.

In queste poche parole è racchiusa (e spiegata) la limitatezza della mia azione di informazione. Limitatezza, non inutilità. Ma i limiti sono soprattutto temporali: un’azione, quale essa sia, non può durare all’infinito. Si verrebbe, giustamente, accusati di “fare filosofia”.

Ecco. La filosofia. La materia che non ho mai studiato.

Da “Il bordo vertiginoso delle cose”: “La filosofia serve a non dare per scontato. Nulla. La filosofia è uno strumento per capire quello che ci sta attorno – per capire quello che ci sta dentro probabilmente è più efficace la letteratura –, ma capiamo davvero quello che ci sta attorno se non diamo per scontate le verità che qualcun altro ha pensato di allestire per noi. Fare filosofia – cioè pensare – significa imparare a fare e a farsi domande. Significa non avere paura delle idee nuove. Significa non fermarsi alle apparenze. Significa essere capaci di dire di no a chi vorrebbe imporci il suo modo di pensare e di vedere il mondo. Cioè a chi vorrebbe pensare per noi”.

Appunto. Ci ho provato. Com’era mio diritto. Anzi: com’era mio dovere.

Il dovere di un cittadino. Di ogni cittadino.

Ho provato a oppormi all’opinione dominante con la forza dei fatti, evidentemente danneggiata dalla debolezza delle mie parole. Ho provato a dire di no.

Da “Il bordo vertiginoso delle cose”: “La capacità di dire no, è una delle manifestazioni fondamentali del pensiero e della libertà”.

Due libri, due romanzi che mi hanno condotto alla riflessione sulla necessità di capovolgere attraverso l’informazione e la sua condivisione la forza della maggioranza basata sull’opinione e non sui fatti.

Poi è arrivato il terzo romanzo, “Giuda”. Che parla a me. Che forse parla di me.

Soprattutto mi ha indicato una strada.

Da “Giuda”: “Sei un soldato coraggioso nell’esercito dei redentori del mondo, mentre io sono solo parte del suo guasto. Quando il mondo nuovo avrà trionfato, quando tutti gli uomini saranno retti e sinceri e produttivi e robusti e pari e dalla schiena dritta, negherai sicuramente il diritto all’esistenza di creature deformi come me, che mangiano e non producono, e per di più molestano con il loro vano e instancabile blaterare. Meglio restare con tutta la sofferenza e il dolore e loro si tengano pure tutti i riscatti del mondo, che comportano immancabilmente macelli. E neanche di te, mio caro, ci sarà più alcun bisogno, non servirai più a nulla di nulla dopo che finalmente si sarà realizzata la grande rivoluzione del futuro”.

Posso immedesimarmi facilmente in ognuna delle due parti: quella di chi prova a redimere e quella di chi ha causato il guasto. Nella certezza che ognuna delle due, domani, sarà messa da parte.

Quindi meglio farlo autonomamente. E farlo per tempo.

Il romanzo propone poi altre due “parti” apparentemente contrapposte e nelle quali posso immedesimarmi contemporaneamente. O singolarmente a seconda del punto di osservazione.

Da “Giuda”: “Beati i sognatori e sventurati coloro che hanno gli occhi aperti. I primi non ci salveranno di certo, né noi né i loro discepoli, ma senza sogni e senza sognatori la maledizione peserebbe mille volte di più. È per merito dei sognatori se anche noi, i disincantati, siamo un po’ meno di pietra e disperati di quanto saremmo senza di loro[u1] ”.

I sognatori e i disincantati, dunque. Ho sempre pensato di essere parte della prima categoria, in questi sei mesi ho scoperto, amaramente, di appartenere invece alla seconda. Ma si può essere a un tempo disincantati e sognatori avendo gli occhi chiusi. Ad occhi chiusi si sogna, è vero. Ma se i sognatori sono coloro che vogliono redimere il mondo, prima o poi devono aprirli.

Da “Giuda”: “Quasi tutti gli uomini attraversano lo spazio della vita, dalla nascita alla morte, a occhi chiusi. A occhi chiusi. Perché se solo li aprissimo per un istante, ci sfuggirebbe da dentro un urlo tremendo e continueremmo a urlare senza smettere mai. Se non urliamo giorno e notte, è segno che teniamo gli occhi chiusi.”.

E dunque? Se i sognatori sono quelli che non tacciono, chi sono i disincantati? Quelli che non urlano? Ma se chi non urla ha gli occhi chiusi, può diventare un sognatore? Chi è nato prima, il sognatore o il disincantato? Tornando ai pompieri di Bradbury, si potrebbe mutuare sostenendo il vecchio adagio che chi nasce incendiario muore pompiere. Ma i pompieri di Fahrenheit 451 appiccano il fuoco, non lo spengono. Allo stesso modo, dopo aver vissuto più di due terzi della mia esistenza a fare il sognatore, mi ritrovo ora a essere un disincantato. Ma l’ho scoperto solo in questi ultimi sei mesi.

Sei mesi nei quali mi sono conosciuto meglio, e mi sono fatto orrore.

Ho coinvolto la mia famiglia, esponendola. Senza chiedere permesso. Senza ascoltare nessuno, sfidando il parere di tutti. Non per egoismo, ma per esigenza di solitudine. Non per sognare, ma per disincanto. Mio figlio Angelo, quando era piccolo, mi prendeva in giro dicendomi che sono un uomo dell’Ottocento. Prendendo a prestito un passaggio di “Giuda” si potrebbe forse dire in un altro modo.

Da Giuda: “Non apparteneva al nostro tempo. Forse era arrivato troppo tardi. Forse troppo presto. Ma non era di questo tempo”.

Non so se per me sia davvero così. Quel che so per certo è che non appartengo alla schiera di coloro che praticano la politica come un potere fine a se stesso. Non è detto che io sia migliore di chi ha questa visione della politica. Essere un sognatore o un disincantato può essere anche peggio. Ma so per certo anche che non ho mai visto la politica – e in particolare la lotta elettorale – come strumento di sostituzione.

Da Giuda: “ La sostanza della tragedia umana, diceva Shaltiel, non è nel fatto che i perseguitati e gli oppressi aspirano ad affrancarsi. No. Il male è che gli oppressi segretamente sognano di diventare oppressori di coloro che li opprimono. I perseguitati anelano al ruolo di persecutori. Gli schiavi sognano di essere padroni”.

A Pratola è già accaduto nel 1980, e si è ripetuto nel 2007. Non è mia intenzione prendere parte alla prossima replica, nemmeno come comparsa. Anzi: neanche come spettatore.

La realtà di Pratola somiglia molto, ancora oggi, a quella descritta dal passaggio di “Giuda”: ancora oggi perché – è questa la mia impressione, ma forse sta già diventando certezza – che in quella parte di gruppi politici e opinione pubblica non compromessa con i fatti descritti dalla relazione del prefetto si continui a pensare e ad agire come se gli avversari da battere siano i rappresentanti delle ultime Amministrazioni comunali e non, invece, quanto si muove e si è mosso intorno a loro: un coacervo di interessi, spesso illegali e immorali, di pretese, di “diritti acquisiti” ma non legittimi né leciti.

Questa certezza mi impedisce di essere della partita, finanche di osservarla o di sostenere una parte o un’altra. Preferisco il mio mondo fatto di libri.

Mia figlia Chiara – che a differenza del fratello maggiore è meno taciturna e preferisce prendermi in giro non con lo scherzo ma in modo tagliente, per descriversi forse prenderebbe a prestito questa descrizione della figura paterna della protagonista femminile di “Giuda”.

Da Giuda: “Viveva dentro un mondo maniacale. Si era creato una specie di giardino dell’Eden utopico, e di fronte si era dipinto un inferno”.

Ma in fondo, visto ciò che accade intorno a me, ritengo che l’Eden utopico, il mio Eden utopico fatto di libri, sia preferibile a ciò che c’è oltre, sia o meno l’inferno che mi sono dipinto.

Un giorno, quando non ci sarò più, mi piacerebbe che di me i miei figli serbassero di me il ricordo di una persona che ha scelto di essere fuori dal coro perché incapace di cantare le canzoni alla moda, quelle che poi vincono i festival. Ma forse sto fuori dai cori semplicemente perché non so cantare.

Più verosimilmente, la definizione più giusta di me la darà mia moglie Raffaella, il mio bastian contrario e ad un tempo la persona dalla quale ho avuto solidarietà infinita, per quanto immeritata. Magari anche lei, mi piace pensarlo, prenderà a prestito le parole della stessa protagonista femminile di “Giuda”, che a proposito del padre afferma ancora: “Era una persona solitaria, tutta presa da se stessa, estremista. Un fanatico, era. Un punto esclamativo ambulante. La famiglia non era roba per lui. Forse era destinato a fare l’eremita”.

Mi scuso con tutti se l’ho scoperto troppo tardi.

Ma non è mai troppo tardi. Dal mio eremo è tutto.

Post Scriptum: C’è un libro più importante di quelli già letti, ed è quello che si sta leggendo. Io, in questo momento, sto leggendo “Il libro di Dio” di Walter Wangerin, “Il libro di Dio”: il racconto della Bibbia con la forma di un romanzo. Cioè il racconto di un lungo viaggio che trova la sua meta in una resurrezione. C’è poi un libro ancora più importante di quelli letti e di quello che si sta leggendo: quello che ci sta aspettando per essere letto.

Mentre leggevo Fahrenheit “451” non sapevo che dopo avrei letto “Il bordo vertiginoso delle cose”, e mentre leggevo quest’ultimo ignoravo che quello successivo sarebbe stato “Giuda”. Più di tutto, non potevo sapere che questi tre libri fossero legati fra loro e tutti e tre avessero a che fare con ciò che in quegli stessi mesi teneva occupata la mia attenzione e riempiva il mio tempo e che accadeva in un luogo del tutto estraneo ai luoghi dei racconti. Oggi, non ho la più pallida idea di quale sarà il prossimo libro che leggerò.


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