C’è ancora domani: un film da Oscar

L’esordio di Paola Cortellesi alla regia regala una vera e propria perla agli appassionati di quel cinema che racconta la grande storia attraverso ritagli di vita quotidiana e comune facendo diventare protagonisti di grandi eventi personaggi “minimi” e imperfetti. “C’è ancora domani” ha diverse caratteristiche in comune con film italiani premiati con l’Oscar come miglior film straniero: il richiamo al neorealismo (non solo per la scelta del bianco e nero ma soprattutto per l’ambientazione nell’immediato secondo dopoguerra) del Vittorio De Sica di Sciuscià” e Ladri di biciclette”; la stessa leggerezza nel raccontare la complessità di un Paese e di un popolo sconfitti che già caratterizzò “Mediterraneo” di Gabriele Salvatores. Ma queste “assonanze” sono soltanto un valore aggiunto a una storia che fa della suggestione e dell’emozione i suoi motori propulsivi. Sul piano narrativo, Paola Cortellesi vince alla grande una sfida che lei stessa si impone attirando lo spettatore in una sorta di gioco, cioè costruendogli intorno una “gabbia” fatta di stereotipi e finali scontati: mentre infatti assiste a una storia che genera rabbia e trepida quanto furibonda attesa di una vendetta che equivale a un riscatto, l’autrice semina quasi perfidamente indizi e dettagli pressoché impercettibili che preparano il finale sorprendente e spiazzante. Alla collera per una vicenda di ordinaria volenza domestica e di scontata povertà di una famiglia popolare di una Roma ancora sotto tutela dei soldati americani, si unisce la consapevolezza che la “perdizione” sia l’unica “arma” nelle mani di una donna rassegnata alla sconfitta dalla mentalità dominante, che sia quella dei ceti popolari, della nuova borghesia di “burini” arricchiti dalla borsa nera e anche quella di facoltosi “signori” che si atteggiano a nobili.

La donna madre, la donna serva ostaggio del marito e pure del suocero, la donna che si fa in quattro per portare qualche soldo a casa e i cui sacrifici non vengono mai apprezzati, la donna senza diritti, la donna senza difese e che non vuole difendersi, incapace finanche di prendere in considerazione l’offerta di aiuto della “autorità costituita”, un soldato di colore americano, e quando si deciderà a farlo sarà a beneficio della figlia, la donna che per salvarsi non ha che una strada: fuggire, magari con l’uomo che è stato l’amore della sua gioventù e che ora le appare premuroso, protettivo, affidabile (ma domani?); in questa gabbia di luoghi comuni la regista trova comunque modo di inserire temi più vicini ai nostri tempi come il conflitto generazionale madre/figlia o i salti sociali tramite matrimoni che inevitabilmente hanno un destino – per la donna – già tracciato e fin troppo riconoscibile agli occhi di chi ora scorge subito il pericolo e capisce che non deve fermarsi davanti a nulla per evitare che la propria triste storia trovi continuità in quella della figlia.

A questo bivio della storia raccontata dalla Cortellesi lo spettatore si convince che queste premesse stiano preparando il terreno al gran finale della “terribile vendetta” della donna vessata che ora non ha più remore a colpire duro e ad armarsi finanche di cinismo e menzogne. C’è l’uomo mite che aspetta con trepidazione, l’amica fidata che pronta ad aiutarla, la determinazione finalmente acquisita. Ecco – pensa l’ignaro spettatore la cui indignazione è stata sapientemente modellata dalla regista – adesso gliela fa pagare a quel violento e ottuso del marito. Sembra tutto apparecchiato per questo epilogo che – “epperò alla fine la donna si emancipa solo se tradisce o lascia il marito che invece la tradiva con ostentazione?”, si chiede con un attimo di smarrimento l’ancora ignaro spettatore – adesso sembra anche questo scontato fino a sconfinare nel luogo comune. Senonché…..

Senonché Paola Cortellesi inserisce tra questo preludio allo showdown (resa dei conti o redde rationem che dir si voglia) una sorta di cliffhanger che è un omaggio alla migliore tradizione della commedia all’italiana (dramedy dicono oggi gli americani per appropriarsi di uno stile narrativo che ha fatto grande il nostro cinema): si ride per una “perla nella perla” all’interno della quale si affollano personaggi senza tempo e senza latitudine come la prefica invadente e molesta, il testimone dell’ultimo respiro che mescola affettata commozione a episodi inventati di sana pianta per esaltare il suo ruolo, il figlio sconsolato per una morte annunciata che si abbandona a un dolore folcloristico e grottesco, i bambini fuori posto, i caffè offerti in continuazione ai visitatori (altro grande omaggio, stavolta al teatro eduadiano); insomma la storia ha preso adesso, con il colpo di scena (il cliffhanger di cui sopra) una brutta piega per la protagonista che vede chiudersi la porta verso il nuovo futuro che aveva faticosamente preparato. Ma di quale futuro si tratta? Qual è il mistero della lettera, inusuale quanto sospetta, destinata a lei e non al marito? E allora “fermi tutti” perché è qui che la perla si avvicina al capolavoro trasformando un riscatto personale in una conquista collettiva e una vendetta in una svolta storica.

Romanzo popolare e opera d’arte, racconto accompagnato non solo da un’autonoma colonna sonora ma anche da canzoni di epoche diverse che sottolineano con i loro testi momenti topici della storia, film caratterizzato da grandi prove attoriali individuali (da applausi quelle di Valerio Mastandrea e della stessa Cortellesi) e da scene corali, “C’è ancora domani” è un film che merita il successo che sta ottenendo in termini di incassi al botteghino e di critica e che farà discutere ancora a lungo: si percepisce non solo dagli elogi degli addetti ai lavori ma soprattutto dalla voglia di raccontare sui social le proprie emozioni da parte di chi l’ha visto e apprezzato.

Un film da Oscar, forse non proprio un capolavoro ma qualcosa che gli somiglia molto.